mercoledì 26 luglio 2017

Pappagalli in città

La maggior parte delle specie di pappagalli presenti in natura è distribuita prevalentemente in paesi tropicali dell’emisfero meridionale. Da alcuni decenni, tuttavia, alcune specie di Psittacidi hanno colonizzato nuove aree geografiche diffondendosi in paesi profondamente diversi da quelli d’origine ed andando ad aggiungersi all’elenco delle tante specie animali "alloctone”. La presenza di pappagalli in vari paesi europei è così fre-quente che molte guide di "Birdwatching” annove-rano ormai alcune specie di Psittacidi tra quelle "indi-gene”.
I pappagalli che più fre-quentemente è dato osservare in Europa appartengono a due specie: il Parrocchetto dal Collare Indiano (Psittacula krameri manillensis) ed il Parrocchetto Monaco (Myopsitta monachus). Il primo è originario del sud est asiatico a differenza del Monaco che ha origini sudamericane. Meno frequentemente è segnalata la presenza dell’Amazzone a fronte blu (Amazona aestiva), pappagallo proveniente anch’esso dal Sud America. 
Con ogni probabilità si trattava originariamente di pappagalli selvatici, prelevati in passato dal loro ambiente naturale ed importati in Europa per alimentare il mercato del "pet”, che successivamente sono fuggiti dalla cattività. 
La loro origine selvatica, unitamente al comportamento sociale ed alla disponibilità di alimenti, ha permesso a questi pappagalli di adattarsi ad un ambiente per loro insolito ed a riprodursi. 
Le suddette specie sono presenti, allo stato selvatico, anche nel nostro paese e, soprattutto per le prime due, ne è stata documentata la riproduzione allo stato libero in molte regioni. Sebbene mantengano preferibilmente contatto con parchi o zone verdi, questi pappagalli sono osservabili anche nelle grandi città. Gruppi stabili di Parrocchetti sono, ad esempio, presenti a Roma (parco della Caffarella e Giardini Vaticani), Napoli (Orto Botanico), Milano e Genova, analogamente a quanto si può osservare in altre città europee. Una folta colonia di Monaci è presente anche al parco Natura Viva di Pastrengo (VR) ed in tante altre località della nostra penisola. 
Parrocchetti dal collare ed Amazzoni nidificano nel cavo degli alberi; meno frequentemente in cavità artificiali. Molto più tipica è la nidificazione dei Monaci che li differenzia da tutte le altre specie di Psittacidi. Essi, infatti, usano costruire un grosso nido comunitario, con diverse camere d’incubazione, abitato dall’intera colonia. Allo scopo usano rami di vario calibro che trasportano alacremente su di un albero ritenuto sicuro per edificare l’abitazione della colonia. Alcuni nidi possono raggiungere dimensioni ragguardevoli (anche alcuni metri di diametro), rappresentando un serio problema nel momento in cui i rami dell’albero non dovessero più essere in grado di reggerne il notevole peso. 
Decisamente più rare le segnalazioni di nidificazione dell’Amazzone fronte blu; una significativa popolazione di questa specie sembra essere presente solo a Genova. Questo pappagallo, inoltre, passa spesso inosservato a causa delle abitudini piuttosto elusive. 
Altre specie di pappagalli vengono talora osservate in città, ma si tratta, con ogni probabilità, di singoli soggetti sfuggiti alla cattività. 
Il comportamento spiccatamente sociale dei pappagalli li porta a frequentare luoghi di riposo notturno comuni, facendoli spostare da un luogo all’altro della città in gruppi più o meno consistenti. 
La loro presenza viene tradita dai tipici versi emessi in volo o quando sono intenti ad intrattenere rapporti sociali sui rami degli alberi. 
Le fonti alimentari di questi pappagalli possono essere varie e comprendere una grande varietà di semi e frutti, da quelli di Magnolia e Cipresso a quelli degli Agrumi ornamentali dei giardini. 
Come per altre specie esotiche anche per i pappagalli ci si domanda, non senza una certa preoccupazione, del ruolo che essi potrebbero svolgere nei confronti dell’ambiente da loro colonizzato. In tanti casi, infatti, l’introduzione, accidentale o voluta, di specie animali ha avuto ripercussioni negative sull’ambiente ed in particolare nella competizione con le specie autoctone. 
Al momento la presenza di questi pappagalli nel nostro paese non sembra causare particolari problemi né all’avifauna né alle coltivazioni. La loro lenta ma continua diffusione non va però trascurata e gli ornitologi stanno monitorando il fenomeno con attenzione. Non è escluso, infatti, che un aumento numerico dei pappagalli cittadini possa condurre a competizione insostenibile per i nostri volatili selvatici, piccoli passeriformi in particolare, o rappresentare un possibile veicolo di nuove patologie. 
Anche se alcuni possono ritenere piacevole osservare pappagalli liberi in ambiente cittadino è, quindi, sicuramente da evitare, per i motivi sopra esposti, la liberazione di uccelli esotici, anche se questi potrebbero adattarsi a vivere liberi in città. 

Il Parrocchetto dal Collare è lungo circa 40 cm, e deve il suo nome alla presenza, nel maschio, di un evidente collare rosa-nero, che si estende dalla gola alla nuca. Nella femmina, al contrario, questo collare è molto meno marcato ed è di colore verde pallido. La specie si riconosce con facilità dalla precedente per le maggiori dimensioni, la lunga coda, ben visibile quando l’animale è in volo, il piumaggio verde brillante, con sfumature blu sulle timoniere, e il vistoso becco rosso. 

Il Parrocchetto Monaco è lungo circa 35 cm, comprendendo la lunga ed appuntita coda. Il colore predominante è verde con gola e petto grigi. Non esiste dimorfismo sessuale. 
Di dimensioni maggiori e di forma più tozza è l’Amazzone fronte blu che presenta coda corta e larga, livrea verde ed aree gialle sulla testa, oltre ad un’ampia macchia blu alla regione frontale.

venerdì 21 luglio 2017

AX e JUMA..

La mia coppia innamorata... AX e JUMA






L’Ara ararauna forma coppie monogame per la vita. La stagione riproduttiva avviene durante la prima metà dell’anno e si accoppiano circa ogni 1 o 2 anni.
I nidi si trovano in alto in alberi ad alto fusto, soprattutto nelle cavità già create da altri animali.
Le femmine depongono da 2 a 3 uova e le covano per 24-28 giorni, dopo i quali le uova si schiudono dando alla luce pulli senza piume che non sono ancora in grado di vedere. Dopo 10 giorni i giovani cominciano a sviluppare il piumaggio. Entro 3 mesi i pappagallini diventano indipendenti.
Le are ararauna raggiungono la maturità sessuale a 3 a 4 anni di età.
Sia i maschi che le femmine si prendono cura dei loro piccoli, fornendogli il cibo e proteggendoli. Durante la prima settimana dopo la schiusa, sarà solo la femmina, attraverso il rigurgito, a nutrirli; passato questo periodo anche il maschio provvederà al nutrimento. Entrambi i genitori mostrano estrema aggressività verso gli intrusi, al fine di proteggere i loro piccoli...
In questo video due ararauna del mio stormo... buona visione!!

mercoledì 19 luglio 2017

Mja e Steel...

In una rinomata e prestigiosa isola tropicale c’era un Residence molto apprezzato per una particolarità: la guida. Questa, invece di essere una bella ragazza come negli altri Residence, era una…..pappagalla... E si chiamava Mja. Aveva un piumaggio molto variopinto, elegante, ma era pur sempre un pappagallo, anche se parlante! Questo era di attrazione per i turisti che sbarcavano sull’isola. Il suo compito era quello di accompagnarli a visitare il luogo, far vedere dove erano posizionate le camere, la cucina, la piscina, la spiaggia, ecc. ecc. Era stata molto ben istruita dal suo padrone e svolgeva il suo compito alla perfezione. Tutti erano entusiasti di lei. Ma un giorno Mja non si presentò al lavoro e questo impensierì molto il proprietario. Era molto insolito, visto che era sempre puntuale. La cercò nella stanza adibita per lei e vide che stava covando 3 uova. Non poteva più svolgere il suo lavoro a tempo pieno, come era abituata a fare. Doveva essere rimpiazzata per un certo periodo di tempo. Il suo padrone doveva fare in fretta a cercare un sostituto, ormai tutti sapevano della “guida” particolare. Acquistò così un nuovo pappagallo molto grande e molto più colorato a cui diede il nome di Steel. Ma ben presto si accorse che era tonto! Sapeva solo dire parolacce e non riusciva ad imparare delle poche nozioni riguardo la logistica. Indicava ai nuovi turisti il bagno invece che al cucina, la spiaggia invece delle camere. Era un disastro: nel giro di pochissimo tempo nel villaggio si era creata una confusione inaccettabile. Così al proprietario venne l’idea di farsi aiutare dalla pappagalla, doveva fargli da insegnante ed educarlo a non dire più parolacce. Tutto questo in un solo giorno! E così Steel fu portato da Mja per imparare queste regole. Il giorno dopo il padrone andò per riprendersi il pappagallo ma quando arrivarono i turisti, pronto per metterlo alla prova, ricominciò a pronunciare le solite parolacce,  a fare pernacchie, a dire frasi senza senso. Arrabbiato corse da Mja per sgridarla e sentire come mai non aveva adempiuto al suo compito. La sua “adorata” pappagalla lo salutò con una bella pernacchia! Seguirono anche frasi irripetibili. Era successo il contrario, Mja aveva imparato da Steel. Inutile dire che il proprietario scacciò dal suo residence pappagallo, pappagalla e i piccoli che nel frattempo erano nati. Non si fidò mai più di un animale, assunse una dolcissima e carinissima ragazza che imparò subito a consigliare e accompagnare i turisti e nel giro di pochi mesi diventò anche lei l’attrazione del villaggio, per la sua dolcezza e simpatia.
Morale: non costringere gli altri a essere quello che non sono…

Ps: Mja e Steel sono le mie ROSSE!!! 

lunedì 17 luglio 2017

Che ce ne facciamo dei tuttologi?????

La figura del Tuttologo rappresenta, nell’ambito della società, la classica medaglia dalle due facce: utilissimo quando si fanno le parole crociate, diventa decisamente fastidioso in alcuni casi-limite che vado ad illustrarvi. L’Homo Sapiens Sapiens, qualunque sia l’oggetto della conversazione, ne sa sempre più di voi. Oltretutto sa rafforzare la propria presenza scenica con paroloni come "antitetico", "pedissequamente" o "ergonomico" capaci di mettere in soggezione qualsiasi comune mortale: è essenziale dare poco peso a queste esibizioni verbali in quanto frutto di una subdola tecnica utilizzata dal Tuttologo. Un’altra abitudine del Tuttologo è quella di farcire il proprio lessico con allocuzioni straniere, e spesso addirittura latine; confidando nell’ignoranza degli interlocutori, sovente si diletta con frasi ad effetto di questo genere: 
"Deus ex machina!" (ovvero "La mia macchina va da dio!"). 
"Melius abundare quam deficiere!" ("Meglio abbondare che essere deficienti"). 
"Sursum corda" ("Sono giù di corda"). 
"Mater semper certa est, pater unquam" ("Mia madre è sempre sicura di dove sia l’est, a differenza di mio padre"). 
"Mens sana in corpore sano" ("Frequentare una mensa dove viene servito cibo sano è il modo migliore per mantenere sano il proprio corpo"). 
Se, per uno strano caso del destino, nel corso della conversazione si parlasse di un argomento estraneo alle conoscenze del Tuttologo, questi si dimostrerà annoiato, sbadiglierà più volte e alla prima occasione troverà l’aggancio giusto per trascinare il discorso su binari a lui più congeniali. Se vi mettete a parlare del vostro lavoro, il Tuttologo raschierà i meandri del suo cervello pur di dimostrare che anche in quel campo ne sa più di voi. Se siete - poniamo - un elettricista, l’Homo Sapiens Sapiens vi terrà una lezione sul teorema di Gauss sui campi elettrostatici. Guardatevi bene dall’avvilirvi davanti a tanta preparazione: anzi, sogghignate beati pensando che il Tuttologo ha trascorso un’intera notte in bianco, studiando una vecchia dispensa della Scuola Radio Elettra, col preciso scopo di punirvi proprio sul vostro campo.
Interessante anche un’altra figura tipica del gruppo umano: lo sparaballe (Homo Esageratissimus), che potremmo descrivere come una deformazione iperbolica del Tuttologo.”

Quando la legge non può far valere i propri diritti rendete almeno legittimo che la legge non impedisca di infliggere i torti. (William Shakespeare)

Ma veniamo alle cose serie... mi piace riproporre un articolo che condivido in pieno scritto da Canale Etologia :

Carissimi amici di Canale Etologia,
siamo tutti ben consci del vertiginoso crollo d’interesse per le scienze naturali degli ultimi decenni, più spiccatamente nelle scienze zoologiche; lo diciamo da parecchio tempo.
Dobbiamo però oggi constatare che nel nostro settore, la zoologia e l’etologia, si sta diffondendo capillarmente un’ignoranza davvero allarmante e profondamente inadeguata agli anni che viviamo e questo grazie anche alla leggerezza dei mass-media. Tale constatazione, purtroppo, sorge spesso anche dalla lettura di testi, articoli e materiale vario scritto da sedicenti specialisti del settore.
Tale situazione è senz’altro causata dall’iper-specializzazione a cui tendono un po’ tutte le accademie, che hanno spinto gli studenti di ieri (e, ahìnoi, quelli di oggi) a concentrarsi unicamente su piccoli settori scientifici, invitandoli a ignorare tutto il resto. 
L’iper - specializzazione, lo sappiamo, non consente di sviluppare una corretta conoscenza del vivente e gli errori che seguono a questo approccio sono sotto in nostri occhi tutti i giorni. Ciò nonostante, è importante il ruolo dei personaggi pubblici e, soprattutto, del web, ma una certa responsabilità è da attribuire all’attuale situazione della società, da molti definita “società post-verità”. Ancora, la violenta competizione che è sorta tra scienze applicate e scienze pure ha di certo velocizzato tale processo.
Noi di Canale Etologia, affezionati come siamo allo spirito naturalistico antico e alle dottrine accademiche del Novecento, non possiamo restare a guardare...
Grazie per la condivisione...

giovedì 13 luglio 2017

A farci volare basso sono l’ignoranza e la viltà....



Avrei potuto rispondere che le Ara volano basso perché' si adeguano alla poca intelligenza di chi fa certe affermazioni, invece ho meditato e rispondo con un pippone lungo e pesante, se ne avete voglia leggetelo, a me ha fatto molto bene scriverlo sul blog!!!!
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=30589

La nostra anima aspira alla verità, sia quando ne è consapevole, sia quando non lo è: tale è la sua natura, tale il suo destino.
Vi sono anime che ne hanno una consapevolezza piena e completa, altre che sembrano totalmente sprofondate nella più grossolana inconsapevolezza; ma, per la maggior parte, le anime oscillano fra questi due estremi, alternando momenti di risveglio e di chiarezza ad altri di ottundimento e di pesante inerzia.
Ora, la verità corrisponde alle altezze: nel duplice significato del vocabolo latino “altus”, che indica sia la dimensione verso l’alto (altezza in senso proprio), sia quella verso il basso (e quindi profondità); significato che si è parzialmente conservato, nell’italiano moderno, in espressioni come “alto mare” per indicare il mare profondo, oppure “alto ingegno” per indicare una profonda intelligenza.
L’anima umana è fornita degli strumenti necessari sia per volare verso l’alto, sia per immergersi nelle abissali profondità di se medesima. Ma il grande segreto è che le due cose, solo apparentemente opposte, in ultima analisi diventano una cosa sola: perché, scendendo nelle profondità della verità interiore, si finisce per cadere nel cuore stesso della Verità, vale a dire nell’Essere incorruttibile, luminoso e supremamente cosciente e beato.
Eppure, noi facciamo l’esperienza quotidiana della nostra penosa insufficienza, della nostra lamentevole inadeguatezza; ogni giorno, ogni ora - si può dire - noi tocchiamo con mano l’enorme divario, la sproporzione incolmabile che separa ciò che siamo da ciò che potremmo essere; la palude stagnante nella quale sguazziamo con fatica ed il mare aperto, limpido, tranquillo di cui ci giunge il lieve fruscio delle onde.
Che cosa è, dunque, questa contraddizione insanabile che ci fa volare basso, mentre la nostra parte divina vorrebbe slanciarsi verso l’alto; che ci trattiene amaramente in superficie, mentre la scintilla celeste che è in noi vorrebbe calarsi nelle abissali profondità dell’anima? A che cosa dobbiamo questa situazione di stallo a somma zero, per cui, come presi tra due forze contrapposte, non riusciamo né a progredire, né a rassegnarci?
Crediamo che una osservazione il più possibile spassionata ed equanime del comportamento umano, sia nostro che altrui, finirà per condurci alla conclusione che il principale fattore responsabile di ciò ha a che fare con la nostra profonda ignoranza e con la nostra ancor più profonda vigliaccheria morale. Noi aspiriamo alla verità, ma non lo sappiamo; o - il che è peggio - lo sappiamo, ma non vogliamo saperlo, e facciamo di tutto per strangolare tale esigenza con la forza cieca del nostro egoismo, come una madre dalla mente ottenebrata che strangola il suo bambino nella culla.
È un delitto contro noi stessi quello che commettiamo quotidianamente, ogni qual volta non sappiamo o non vogliamo riconoscere che il richiamo alla nostra verità interiore è una esigenza fondamentale della nostra anima, ignorando il quale essa finisce per intristire e per spegnersi lentamente, ma inesorabilmente.
Conosciamo persone che vivono così: esse hanno ucciso la propria verità interiore, hanno strangolato il proprio bambino nella culla; e continuano a vivere, così, miseramente mutilate, mutilate dalle loro stesse mani; ma vivono una vita che non è realmente vita, è soltanto una pallida contraffazione della vita, è un inganno e una menzogna continua, una intollerabile finzione e una lunga, segreta agonia.
Ne conosciamo; e forse ciò vale anche per una parte di noi stessi; e, forse, ognuno di noi conosce tali situazioni e sa bene di che cosa stiamo parlando.
Ma che cosa intendiamo, esattamente, quando parliamo di ineludibile richiamo alla nostra verità interiore? Nulla di generico o, peggio, di retorico: ma la concreta, quotidiana verità delle emozioni, dei sentimenti, dei pensieri.
La nostra intima verità, in un certo senso, è più grande di noi: il nostro io quotidiano, il nostro piccolo io fondato sul falso Ego è un contenitore troppo esiguo per contenere la sua forza luminosa e prorompente; per cui facciamo come l’avaro, che chiude a chiave il forziere dei propri tesori: chiudiamo a chiave le porte della nostra anima.
Intendiamoci bene: non tutto ciò che sale alle profondità delle nostra anima è buono in se stesso; non tutto deve essere accolto e portato alla luce; è giusto e doveroso che noi operiamo una selezione, guidati dal nostro istinto morale e dalla nostra ragionevolezza. Ciò non significa, tuttavia, che noi siamo esonerati dal sacrosanto dovere di guardare in faccia i contenuti della nostra anima, la verità che emerge da essa: che la guardiamo in faccia, che la riconosciamo e che la accettiamo. Dopo di che, decideremo quali contenuti dovranno guidare il nostro cammino esistenziale, e quali no, perché ci porterebbero fuori strada: ma abbiamo il dovere imprescrittibile di essere leali e onesti con noi stessi, di non barare al gioco.
Chi bara al gioco con sé stesso, lo farà anche con gli altri; procurerà sofferenza a se stesso e al suo prossimo: sarà simile ad una mina vagante, capace di esplodere e di distruggere tutto ciò che le sta all’intorno - e, quel che è peggio, senza averne una piena e profonda consapevolezza. Sarà un’anima persa, nel senso letterale della parola.
Sono molte le ragioni per cui gli esseri umani sono tentati di barare al gioco; ma tutte, più o meno, riconducibili ad un elemento comune: l’ignoranza di se stessi e la vigliaccheria davanti a sé e agli altri. La paura di essere giudicati - in primo luogo da noi stessi, in secondo luogo dalla società - li paralizza e li fa venire a patti con la propria coscienza; li abitua al quotidiano tradimento della propria anima, al quotidiano assassinio della propria verità.
La verità che giace in noi stessi ha qualcosa di divino: perché in noi stessi, nelle nostre insondabili profondità, giace una scintilla della luce divina. Quindi ignorare, tradire e soffocare la nostra verità significa ignorare, tradire e soffocare la nostra parte divina. Non è solamente un delitto contro noi stessi quello che compiamo, quando cediamo alla viltà, ma anche e soprattutto un delitto contro l’Essere, di cui noi siamo una parte o un riflesso o una emanazione.
Emozioni, sentimenti, pensieri: cose concrete, che emergono dalle nostre profondità, chiamate da una domanda da noi stessi formulata e poi subito, magari, soffocata e respinta. Vi sono persone, ad esempio, le quali, dopo aver evocato un sentimento di amicizia o di amore, se ne pentono, perché lo trovano inconciliabile con la propria posizione sociale.
Pentirsi di un sentimento è sempre esecrabile e indice di un basso livello morale; tuttavia, è vero che non tutti i sentimenti possono essere vissuti e che, per un complesso insieme di ragioni, talvolta risulta necessario rinunciarvi. Ciò non significa che li si possa trattare come dei clandestini indesiderati, perché siamo stati noi stessi ad evocarli; quindi, essi vanno riposti in una piega della nostra anima con la massima cura e con il massimo rispetto.
Non solo. Se, nella fase in cui abbiamo civettato con i nostri sentimenti, altre persone sono state coinvolte nel gioco, noi abbiamo contratto un debito d’onore nei loro confronti: non è lecito coinvolgere altre persone nelle nostre contraddizioni, lusingarle, illuderle, e poi voltare loro bruscamente le spalle, sbattendo loro la porta in faccia.
Si dirà che chi agisce in tal modo, lo fa perché sconvolto dalla paura e non per cattiveria: per la paura di perdere se stesso, per la paura di non riuscire più a controllare la situazione. Questo è vero, ma non attenua la responsabilità morale di un tale comportamento. Ciò che sarebbe perdonabile in un bambino, non lo è più quando si tratta di un adulto, pienamente responsabile delle proprie azioni perché in grado di comprenderne la portata e le possibili conseguenze.
La verità è che, troppo spesso, noi tendiamo a giustificarci e ad auto assolverci invocando la paura come causa di forza maggiore: ma la paura è figlia della viltà, e quest’ultima non ci piomba addosso alle spalle, a tradimento: siamo proprio noi, invece, con i nostri comportamenti e con i nostri pensieri quotidiani, a permetterle di stabilirsi nella nostra dimora, di invadere la nostra dimensione interiore, di ricattarci come miseri burattini e, in conclusione, di insignorirsi della nostra anima e di averci completamente in sua balia.
Don Abbondio giustificava con se stesso la propria viltà, dicendosi che, se uno non nasce con un cuor di leone, non se lo può dare da sé: ma è una giustificazione troppo comoda e troppo sbrigativa. Sarebbe plausibile se noi fossimo soli e abbandonati alle nostre misere risorse individuali; ma non è così. Siamo molto più forti di quel che crediamo: e non perché ci sostiene - come ritengono alcuni filosofi - un cieco attaccamento alla vita; ma perché le radici dell’Essere, che affondano negli abissi della nostra anima, non ci permettono di subire gli assalti di forze più grandi e potenti di noi, senza fornirci, al tempo stesso, un sostegno adeguato.
Noi lo sappiamo, lo sentiamo, lo intuiamo; ma il punto è che preferiamo fare finta di ignorarlo, per la semplice ragione che, se nella nostra lotta contro la viltà potremmo ricevere un tale sostegno, nondimeno dovremmo impegnarci con tutte le nostre forze: come un inesperto rocciatore che, nel tratto più difficile dell’ascensione, riceve bensì l’aiuto dell’esperto alpinista, ma deve tuttavia dare fondo a tutte le proprie risorse, perché solo così potrebbe avanzare, invece di rinunciare e tornare mestamente sui propri passi.
E questo, molto spesso, noi non lo vogliamo: non ci piace fare fatica, specialmente se non vediamo a portata di mano una sostanziosa ricompensa.
In questo caso, l’unica ricompensa è il senso di giustizia morale che si pone sia come esigenza del nostro agire, sia come premio ai nostri sforzi: troppo poco per dei ghiottoni incorreggibili, per dei furbastri che sempre vorrebbero ottenere almeno il doppio di ciò che hanno investito. Siamo abili ad inventarci mille scuse per giustificare la nostra viltà: ma il fatto è che essa ci fa troppo comodo perché siamo disposti a rinunziarvi.
Combattere e vincere la nostra viltà, infatti, comporterebbe delle ulteriori responsabilità: e la prima fra tutte sarebbe la responsabilità di sentirci chiamati a rispondere, davanti a noi stessi, delle nostre scelte esistenziali, senza accampare scuse di alcun tipo.
Quanti di noi sono veramente disposti a farlo?
Quanti di noi sono capaci di vivere così, di adottare questo stile di vita, e non solamente di farlo a sprazzi, quando un soprassalto di orgoglio o di consapevolezza ci sferza e ci obbliga, quasi, a ritrovare un minimo di lealtà e di onestà con noi stessi, per poi subito ricadere nell’inerzia e nell’ignavia consuete?
Non molti, se vogliamo essere sinceri.
E tuttavia, è davvero il caso di chiedersi se valga la pena di cedere alla viltà e di accettare una vita mancata: perché questo, e non altro, è il prezzo che si paga, allorché deliberatamente si mette a tacere la propria verità interiore.
Se non abbiamo il coraggio dei nostri pensieri e dei nostri sentimenti, non troveremo mai nemmeno il coraggio di affrontare la verità ultima della nostra anima: vale a dire l’aspirazione a fare ritorno all’Essere.
E una vita mutilata di questa esigenza fondamentale non è più vita, ma una misera parodia di essa; un surrogato triste e deludente.
È così che vogliamo vivere: con l’eterno rimorso di aver mancato la nostra vita, il nostro scopo, la nostra ragione di essere?
Contare gli anni, i giorni, le ore del nostro tradimento verso noi stessi, della nostra infedeltà alla chiamata?
Se potessimo vedere con chiarezza e mettere sui due piatti della bilancia i pro e i contro di una simile scelta, non ci sono dubbi che resteremmo colpiti dall’assurdità e dall’autolesionismo del nostro comportamento: perché vivere come stiamo vivendo ora, significa punirci molto più duramente di quanto potrebbe mai farlo il più severo dei giudici.
Perché non tentare, dunque, di restituire alla nostra vita tutta la sua bellezza e tutto il suo splendore, liberandoci dal falso Ego e ritrovando la felicità cui siamo stati destinati fin dall’inizio? 

Avrei potuto essere cinico e maleducato, ironico e strafottente... invece mi godo il meraviglioso volo ALTO del mio stormo in Lomellina!! 
QUANTI LO POSSONO FARE???

mercoledì 12 luglio 2017

Corsi imperdibili per come fregarti i soldi e farti felice!


Stamani sono uscito dai gangheri e montando su un cavallo matto son partito a tutta birra per andare in bestia, ma vedevo tutto rosso e così ho perso le staffe, e poi la tramontana e finanche la bussola; e in ultimo smarrii il lume degli occhi, così che inciampai nella pietra dello scandalo e mi ritrovai in un mondo in bianco e nero, ma dove il bianco era nero e il nero era bianco, dove le auto strombazzavano sottovoce, la pioggia cadeva così dolce che ne bevvi subito un sorso. Frotte di speleologi avanzavano nelle grotte ruzzoloni, gli sciocchi parlavano gratis, e le onde del mare erano così alte come non s'erano mai viste, così che tutti applaudivano entusiasti. La televisione annunciava ai quattro venti di essere stata truffata, ma quelli continuavano a sibilare forte da squassarle il tubo catodico. Un passante sfilacciato mi chiedeva perché aveva perso l'autobus, e m'appellò beato perché non capivo niente. Io, che non amo far le cose di nascosto, sentii l'ansia che cresceva a casaccio, e cercai di svignarmela procedendo tastoni, quando un pacco mi fu recapitato all'impazzata con dentro uno sciroppo che aveva un profumo tale che rovinò tutti i fiori, e io ...che avevo le labbra ormai arrostite dal freddo, nonostante avessi studiato una bella poesia sottovoce per non disturbare i rimproveri della zia Leopolda che rimbombavano da un capo all'altro del mondo, cercai ancora di svignarmela tastoni, così a tastoni che mi ritrovai in un cinema così pieno che fu impossibile uscirne se non dopo il roboante applauso finale. Mi rammentai del compito, ma lo trovai difficile, così difficile che mi venne il mal di mare. Tuttavia ritornai sui miei passi camminando a ritroso, così inciampai col tallone nella pietra dello scandalo, ritrovai il lume degli occhi e più in là la bussola, riacciuffai la tramontana, recuperai le staffe, rividi ogni colore, montai su di un cavallo alato e rientrai nei gangheri.... Vi aspetto tutti sull'arcobalengo per fare un corso di "Tante idee ben confuse", ci saranno tutti ma proprio tutti, la zia Leopolda, lo zio Tavernello, le tre comari cesse, il boiler e ovviamente i protagonisti del corso --> LE QUAGLIE DEPLUMATE!!

Sono un'artista...


Articolo pubblicato ai sensi della Legge 22 aprile 1941 n. 633, Capo IV, Sezione II, e sue modificazioni. Ne è vietata qualsiasi riproduzione, totale o parziale, nonché qualsiasi utilizzazione in qualunque forma, senza l'autorizzazione dell'Autore. La riproduzione, anche parziale, senza l'autorizzazione dell'Autore è punita con le sanzioni previste dagli art. 171 e 171-ter della suddetta Legge. I fatti ed i personaggi narrati in questo articolo sono frutto di fantasia e non hanno alcuna relazione con persone o fatti reali.




martedì 11 luglio 2017

Il pulcino gigante

C’era una volta, nel Paese dei Pulcini, un pulcino gigante di nome Pione.
Rispetto agli altri pulcini era alto cinque volte di più e largo per tre; quando camminava, pigolava o sbatteva le ali emetteva un gran fracasso.
A causa di queste misure mastodontiche gli altri abitanti ne erano intimoriti, così gli giravano alla larga.
Pione era tanto buono, timido e impacciato: a volte nel cercare di fare qualcosa di carino per gli altri combinava dei pasticci e veniva allontanato, restandoci male.
Oltre al suo corpo, anche il suo cuore era grande, ma non aveva qualcuno che lo colmasse d’amore.
Un giorno Pione era particolarmente triste: gli altri pulcini stavano giocando e lo avevano allontanato bruscamente nel momento in cui aveva provato ad unirsi al gruppo.
Vedendoli così felici e uniti, sentì risalire dentro di lui tutte le emozioni negative che aveva tentato di scacciare nel corso del tempo e divenne una furia: iniziò a piangere, sbattere le ali e le zampe dappertutto, distruggendo ciò che gli capitava a tiro.
Gli altri pulcini erano terrorizzati e scappavano via pigolando forte, aumentando così la frustrazione e il dolore di Pione.
Solo un pulcino, piccolissimo, era rimasto fermo, poco più lontano, ad osservare incuriosito la scena.
« Piolino, cosa fai qui? Veni via, prima che ti travolga! », disse un altro pulcino mentre tentava di portarlo via.
« Ma cos’ha quel pulcino? Perché è così arrabbiato? », chiese Piolino, sempre più curioso.
« Non vedi com’è grande? È solo cattivo! Allontaniamoci da lui! », rispose l’altro, impaziente di andare via.
Piolino però non l’ascoltò e corse verso Pione, che scalciava alla cieca, sordo ai richiami degli altri pulcini; gli saltò su una zampa e l’abbracciò forte forte.
Pione, vedendo quell’esserino che gli abbracciava la zampa, si calmò all’istante, si sedette e iniziò a piangere, inzuppando Piolino con una grossa lacrima.
« Mi hai fatto la doccia! », esclamò il piccolo pulcino ridendo e agitandosi per scrollarsi di dosso la lacrima. « Ora dimmi, perché sei così triste? »
« Mi sento tanto solo! Tutti hanno paura di me, ma io vorrei solo un po’ di affetto… », rispose sconsolato Pione.
« Mi dispiace tanto! Io non ho paura di te, possiamo essere amici! Non sentirti triste! », gli disse Piolino accarezzandolo.
Per tutta risposta Pione iniziò a piangere ancora più forte: « Ma gli altri avranno sempre paura di me e continueranno a starmi lontano, soprattutto dopo quello che ho fatto oggi! »
« Non temere, ci parlo io con gli altri: al contrario di come fanno con te, siccome sono piccolo piccolo e faccio tenerezza, mi danno sempre ascolto! », affermò Piolino gonfiandosi d’orgoglio, diventando una vera e propria pallina di piume.
Pione rise e lo ringraziò, guardandolo mentre zampettava verso gli altri pulcini che assistevano da lontano alla loro conversazione.
« Ehi ragazzi, avvicinatevi! », disse Piolino a tutti gli altri. « Se questo grande pulcino sta male è anche colpa vostra, che continuate ad allontanarlo perché avete paura di lui! Vuole solo fare amicizia! », continuò con tono di rimprovero.
Gli altri pulcini si sentirono il colpa e piano piano iniziarono ad avvicinarsi a Pione con cautela, lo salutarono e gli chiesero scusa, consolandolo e rassicurandolo.
Vedendo quanto fosse gentile e innocuo, tutti capirono quanto si fossero sbagliati sul conto di Pione, fermandosi solo all’apparenza e furono ben contenti di fare amicizia con lui.
Da quel giorno gli abitanti del Paese dei Pulcini furono più uniti che mai e Pione iniziò finalmente una vita felice diventando amico di tutti; in particolare strinse un forte legame con Piolino, che non poteva essere scalfito dalla differenza di stazza e, nonostante l’uno al fianco dell’altro apparissero bizzarri, nessuno mai li prese in giro, perché avevano imparato a non giudicare dalle apparenze....

lunedì 10 luglio 2017

Il pappagallo innamorato

La prima orchidea gialla e verde si posò sull’acqua senza essere notata, tra le zampotte di Ariosta, l’Elefantessa vanitosa. Seduta sull’acqua bassa a riva, Ariosta continuò a strofinarsi la pelle con una pietra liscia. Dio mio, che pelle rugosa ho stamattina, pensò l’Elefantessa, deve essere l’umidità del Lago. La seconda orchidea nera e rossa fece una spirale attorno alla proboscide di Ariosta e si dondolò, appena notata, accanto alla prima orchidea.
Quasi quasi provo a farmi una doccia di fango, questa pietra liscia serve a niente, pensò ancora tra se l’Elefantessa.
La terza orchidea, bianca e blu, fece come un inchino rispettoso nell’aria e si posò tra le prime due, sempre tra le zampotte di Ariosta. L’Elefantessa inarcò le sopracciglia, fingendo indifferenza aprì piano piano le orecchie e cominciò a roteare gli occhioni, ma si costrinse a non voltarsi. Ora che ci pensava, le era parso da qualche minuto di sentire come un fruscio, una corrente d’aria sopra la sua testa.
Chi mai si permetteva di spiarla mentre era a bagno? qualcuno la spiava davvero! Alle spalle di Ariosta, due occhietti, audaci e timorosi allo stesso tempo, continuavano ad ammirarla stando ben nascosti tra i rami a riva. Sotto quegli occhietti, il beccuccio ardito e fiero del pappagallo Evaristo masticava noccioline assieme a parole di ammirazione per le belle forme dell’Elefantessa, altro che quelle pappagallette dipinte, tutte penne e ossa. Alla fine Evaristo si risolse, spiccò il volo e cominciò a planare davanti ad Ariosta.
− Mia cara, spero che abbiate gradito il mio lieve omaggio floreale, o forse preferite un mazzetto di germogli freschi?
Ariosta sorpresa quasi spaventata raccolse a se le orecchie e la proboscide.
− Eravate dunque voi, come avete osato?− gridò indignata al Pappagallo. Poi furibonda si rialzò dall’acqua e si rifugiò a riva, raggiungendo il placido branco degli Elefanti.
Tutto questo accadeva in un tardo tiepido mattino di sole sul Lago. Durante tutto il pomeriggio, Ariosta, con grande sorpresa del branco, non fece altro che strofinarsi e lisciarsi sui tronchi degli alberi, specchiarsi sulle pozze d’acqua che ristagnavano sul sentiero del branco, guardare in alto tra i rami al minimo fruscio. Nessuno degli Elefanti disse qualcosa di esplicito al riguardo, e poi non c’era di che preoccuparsi, presto i germogli bassi sulle rive del Lago sarebbero finiti e tutto il branco si sarebbe mosso altrove, lontano e ancora lontano. Ariosta avrebbe seguito, non poteva starsene certo sul nido del Pappagallo. E dunque il branco finse indifferenza e continuò a strappare germogli in silenzio. Ma quando Ariosta prese a sbattere le grandi orecchie, correndo verso il Lago e balzando nell’acqua con una gran spanciata per molte volte di seguito, il branco non poté fare a meno di voltarsi a guardarla con grande curiosità. Cosicché Ariosta si sentì in dovere di dare una spiegazione a voce alta
− Avevo bisogno di una rinfrescatina. Cosa pensavate, che volessi imparare a volare per caso?
Naturalmente anche la tribù dei Pappagalli aveva seguito tutta la scena del primo incontro tra Ariosta e Arcobaleno. Se un Elefante è un animale assai serio e riservato, nulla di tutto ciò si può dire dei Pappagalli. La natura ha dotato i Pappagalli di un becco adunco d’acciaio duro, perché possano ben triturare le loro vittime. Da ogni ramo, sulle cime degli alberi, ogni Pappagallo cominciò a spettegolare col dirimpettaio, per farsi sentire da tutti.
− Questa di Evaristo− disse Becco Verde − è stata sempre una famiglia davvero bizzarra. Vi ricordate di Evarista, la sua prima cugina? Si era messa con un Merlo e andava dicendo che un giudice le veniva dietro. Se poi uno le chiedeva conto del becco piccolo e giallo del Merlo, Evarista diceva con convinzione che era a causa del fatto che il Merlo apparteneva all’Alta Corte.
Ora era la volta di Narciso Arcobaleno, che dopo essersi ammirate in uno specchietto le penne della coda, si affacciò a dire
− E allora che dovremo dire del Beato Cocorito, zio di Evarista, quello che voleva far volare le Scimmie con le preghiere, perché divenissero uguali a noi?
Il professor Penneasciutte benevolo ricordò il dottor Sottilbecco, lontano parente di Evaristo, che aveva studiato all’estero e pubblicato il saggio Pappagalli e Scimmie Insieme per un Futuro nella Imitazione.
I Pappagalli andarono avanti così, per ore e ore, il battere e lo stridere dei loro becchi pareva una orchestra di acuti martelletti.
Arrivò il tramonto di quel giorno di sole sul branco degli Elefanti e poi finì anche la tiepida notte che spegne dolcemente i sospiri. A metà del mattino seguente, la ghirlanda di fiori si posò sul capo di Ariosta, ma questa volta non si riscosse sorpresa come il mattino del giorno prima. A bagno nell’acqua, infatti, Ariosta aveva viste riflesse le ali di Evaristo aprirsi da un alto albero e planare lentamente sul suo capo con un cerchio di petali intrecciati tenuto nel becco.
− Una corona per voi, mia piccola regina− sussurrò Evaristo a una delle grandi orecchie di Ariosta.
L’Elefantessa non trovò cosa rispondere, era una situazione davvero insolita, come ci si deve comportare in un caso del genere? Come tutti sanno, gli Elefanti hanno regole precise per ogni circostanza. Nessuno ha mai visto un Elefante improvvisare o comportarsi in modo insolito. Un branco di Elefanti è come un club esclusivo, non ci entra se non si è Elefanti da sempre. Mai si è visto un Elefante correre dietro a un altro animale e neppure salutarlo in verità. Il fatto è però che agli Elefanti succedono sempre le stesse cose, mentre questo intervento di Evaristo era un caso davvero imprevisto, una situazione imbarazzante.
Che strano comportamento, pensava dunque Ariosta. E poi perché proprio con me? Certo che quel suo corto strascico variopinto gli dà un’aria regale, che sia dunque un principe in incognito?
L’Elefantessa in verità ancora non sapeva come comportarsi, se tacere e allontanarsi indignata o rispondere con ferma cortesia. Gli Elefanti vengono guidati in ogni circostanza dalle regole dell’istinto loro proprio, ma dove ti può portare l’istinto quando hai a che fare con un Pappagallo? Non c’erano precedenti. Alla fine si disse che doveva tenere un comportamento riservato, si alzò lentamente dall’acqua con tutta la dignità che poté e si diresse a riva. Si era già quasi pentita e stava per voltarsi quando un tremendo barrito la fece sussultare.
− Mai che sia una maledetta volta che uno possa restare tranquillo allo stesso posto − era il capobranco degli Elefanti che imprecava dando una zampata al tronco dal quale aveva strappato l’ultimo germoglio a tiro di proboscide.
Ariosta rabbrividì nel sentire quel barrito, era dunque tempo che tutto il branco si partisse dal Lago, i germogli da mangiare erano finiti. Il capobranco si mise in marcia per primo, un barrito, due colpi di proboscide nell’aria e via. Poi ad uno ad uno gli Elefanti voltarono le spalle al Lago e si mossero per il bosco dietro al capobranco. Si mosse per ultima Ariosta, ma con uno strano passo, a tratti si fermava e apriva le grandi orecchie a voler cogliere un fruscio. poi si girava fingendo di volersi strofinare su un tronco per asciugarsi la pelle ancora bagnata. Alla fine, per non perdere di vista il branco, Ariosta si rassegnò a trotterellare diritta con la proboscide a terra. L’Elefantessa procedeva in silenzio, quando un germoglio, riscaldato dalla luce del sole caldo, si posò sulla sua schiena e le diede un brivido di piacere. Poi un altro germoglio seguì il primo e altri ancora e altri ancora: Evaristo l’aveva seguita e spezzava i germogli in cima agli alberi, dove il sole e più caldo, per deporli sulla schiena di Ariosta. All’inizio Ariosta sorrideva in silenzio e questo fu sufficiente, ma poi l’Elefantessa non seppe resistere e volta ad Arcobaleno, che le era davanti appollaiato su un ramo, queste parole gli disse
− Signor mio Pappagallo, visto che insistete a seguirmi, non vorreste togliermi questo insetto conficcato tra le pieghe della pelle dietro il mio orecchio sinistro?
Il Pappagallo volò dolcemente dietro l’orecchia di Ariosta fino a sparirvi. Ariosta sentiva le morbide piume e il becco sottile sulla sua pelle e sospirò per una sensazione di lievi brividi. La prossima volta devo asciugarmi meglio dopo il bagno, si rimproverò.
Il Pappagallo uscì da dietro l’orecchia di Ariosta non senza qualche rimpianto. Ariosta lo vedeva volteggiare sulla sua testa, fingendo indifferenza, ma alla fine si risolse a parlargli ancora.
− Ora con questo non vorrei che pensaste che io ho una qualche inclinazione per voi, signor mio cocorito, purtuttavia poiché vedo che vi compiacete di girellarmi attorno e riempirmi la testa di gusci di noccioline, non vi parrebbe di usare meglio il vostro tempo se mi spezzaste una mezza noce di cocco, con la quale io potrei rasparmi un poco le pieghe della pelle?
− Oh− le rispose il Pappagallo− vi rassoderò ben bene mia signora, lasciate fare a me ogni cosa.− E così detto il Pappagallo spezzò una noce di cocco e con un pezzetto tagliente nel becco prese a rasare e raspare la pelle dell’Elefantessa, girandole attorno in cerchi verticali sulla schiena e sulla pancia, con questo provocandole ancora più di un brivido sottile e una consunzione simile a quella che deve provare il formaggio sulla grattugia.
Da allora in poi, quando Ariosta si lamentava per il caldo, Evaristo volava alto e soffiava su una piccola nuvola fino a portarla sopra l’Elefantessa per farle ombra. Gli altri Elefanti del branco per qualche tempo non fecero che lamentarsi, perché non si capiva dove finissero le noccioline che sparivano, ma poi lasciarono correre.
La tribù dei Pappagalli prese la partenza di Evaristo con spirito pratico. Meno Pappagalli siamo più noccioline ci sono, fu il commento di tutti. E questo pose fine al loro spettegolare per il momento....
Notte a tutti!!


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venerdì 7 luglio 2017

La favola dei pappagalli


In una foresta vivevano due pappagalli meravigliosi, il loro piumaggio era talmente splendido che brillava oltre le cime degli alberi e il loro splendore si rifletteva per terra come un caleidoscopio di mille colori.
Erano felici, non gli mancava nulla , avevano cibo in quantità e acqua pura.
Il loro verso echeggiava nella foresta e si sentiva anche in lontananza
Spesso si inseguivano per gioco ed il loro volteggiare era preludio di una danza d'amore
Il maschio, di nome Marajo, aveva piume lunghissime rosse, blu e verde.
La femmina, non meno bella di Marajo, aveva nome Arara.
Marajo e Arara erano felici, si erano conosciuti da piccoli.
Adesso i loro genitori erano avanti con gli anni e non riuscivano a stare dietro a loro, così spesso i due giovani pappagalli si ritrovavano insieme.
Erano felici, liberi del loro tempo, non avevano barriere, tutto intorno a loro era così bello! come una chiave di violino per iniziare la giornata, per vivere e cominciare ad amarsi.
Marajo e Arara decisero di mettere su " nido " per vivere insieme e non lasciarsi mai.
Così una mattina si allontanarono dal " nido paterno ".
Marajo aveva costruito un bel nido sotto le fronde di un albero,
lo aveva posto molto in alto, lontano da sguardi indiscreti, voleva stare solo con la sua Arara. Si era strappato anche qualche piuma nascosta per rendere più morbido e comodo il loro giaciglio.
Così i due innamorati di buon mattino, salutati dal canto di altri uccelli, iniziarono il loro volo per raggiungere la loro casa .
Era bello stare insieme, non lasciarsi mai, scherzare, ridere e volteggiare felici.
Il tempo passava, per loro era sempre gran festa, volavano insieme per andare a mangiare i semi, le bacche degli alberi ogni seme un bacio, i loro becchi si incrociavano di continuo.
Così arrivò il tempo di deporre le uova, la giovane Arara ci si accovacciò sopra e da quel momento non lasciò più il nido.
Marajo le portava da mangiare e la imbeccava, lei dall'alto guardava le meraviglie della foresta Che felicità ! Presto sarebbe diventata mamma responsabilità aumentavano, ma cosa importava, lei sognava già i suoi pulcini.
Dopo breve tempo nacquero due pappagallini, un maschio e una femmina, di nome Raggio e Luce. Arara era felicissima, non le sembrava vero che la sua famiglia era cresciuta, stava sempre accanto a loro.
Marajo certe volte era geloso dei piccoli perché Arara donava tutte le attenzioni a loro.
Il tempo passava, la famigliola era serena, Marajo e Arara si amavano,i piccoli crescevano ed il loro piumaggio era ancor più bello di quello dei genitori.
Un giorno Raggio decise di fare un viaggio, voleva uscire dalla sua foresta e vedere il cielo aldilà degli alberi, voleva conoscere altri luoghi, Arara pianse molto, gli fece mille raccomandazioni e gli disse di tornare presto.
Così Raggio spiccò il volo e cominciò a volare.
Ma le sue ali non erano fatte per lunghi viaggi e grandi altezze, volava un po’ e poi doveva fermarsi, la fame si faceva sentire, era molto stanco e non si fidava di andare alla ricerca di semi.
Nella sua foresta stava al sicuro, qui era in spazi aperti stanco ed infreddolito.
Da lontano vide un grande albero, lo raggiunse, ma quando gli fu vicino si accorse che era
occupato da altri uccelli, lui era un intruso, così cercò di riposare su di un ramo molto piccolo
La notte intanto era scesa, avvolgendo con il suo manto tutte le cose.
In cielo non c'erano stelle e tutto sembrava più scuro.
Al mattino le sue piume erano umide, bagnate di rugiada, non riusciva a spiccare il volo, gli occhi gli si riempirono di lacrime, pensava di aver sbagliato ad allontanarsi così tanto. Nella foresta la mamma il papà e la sorella pur continuando la loro vita di ogni giorno si sentivano molto tristi senza Raggio.
Luce guardava sempre sopra gli alberi nella speranza di vedere arrivare il fratello, ma i giorni passavano e di Raggio nessuna notizia.
Qualche giorno dopo Arara scoppiò a piangere sulle ali di Marajo, sembravano così lontani i giorni dell'amore!
Marajo cercò di consolarla ma lei era veramente disperata. 
Tutti gli uccelli corsero verso di loro, volevano aiutarli,
Arara era convinta che il suo giovane Raggio era in difficoltà, e il suo cuore di mamma non sbagliava.
Durante la notte si accorse che sotto il suo nido c'era uno scalpiccio di foglie, subito pensò al figlio lontano e volò fuori dal nido invece si trovò dinnanzi ad un elfo, Arara trasalì, l'elfo la tranquillizzò dicendole che aveva sentito il suo pianto e voleva aiutarla.
Questo piccolo elfo era molto buono e carino, era vestito di verde con un cappello a campanula blu, camminava saltellando come se non toccasse a terra, con un esile voce disse ad Arara di stare calma, ci avrebbe pensato lui a far tornare Raggio.
Soffiò dentro un piccolo corno che teneva legato alla cintola, subito accorsero altri elfi, stavano intorno a lui, nell'attesa di ricevere ordini.
Allora l'elfo disse ai suoi amici di cercare un grande uccello dalle ali forti per andare in cerca di Raggio.
Ben presto gli elfi sparirono, e ciascuno di loro iniziò la ricerca.
Finalmente si trovo una cicogna, la quale dopo aver parlato con i genitori e con gli elfi, si mise alla ricerca di Raggio. 
Volò in alto, e dopo qualche giorno vide il pappagallo viaggiatore appollaiato su di un albero, scese verso di lui e con dolcezza gli disse che si poteva fidare di lei.
Gli procurò subito un po’ di cibo, Raggio era affamato e stanco, la cicogna gli infondeva sicurezza, dopo aver mangiato cominciò a raccontare all'uccello il suo viaggio, la sua smania di voler vedere altri luoghi, era pentito per aver intrapreso un viaggio così lungo, aver fatto soffrire i genitori, aveva capito che il suo luogo era la foresta, aveva tutto lì, e solo adesso lo capiva.
La cicogna, lo invitò a salire sul suo dorso per riportarlo nella foresta.
Fu un viaggio lungo, ma la gioia di sapere che era aspettato con amore era grande.
Gli uccelli che stavano a scrutare il cielo nell'attesa del loro ritorno, non appena videro da lontano la cicogna con sopra le ali delle piume rosse e blu, chiamarono Marajo e Arara, Raggio finalmente era a casa!
Immaginatevi la gioia della famiglia! adesso erano insieme e al completo.
Raggio raccontò ciò che aveva visto, ma anche quel che aveva sofferto, il mondo era bello, infinito, ma il suo posto era lì, insieme ai suoi cari.
La vita ricominciò a scorrere come prima, in armonia e felicità, ma ahimè, Luce cominciò a dar preoccupazioni ai genitori, poco distante dal loro nido c'era un passerotto azzurro.
Luce si innamorò perdutamente di lui, e lui di lei, nonostante la loro diversità, andavano d'accordo. I genitori di Luce non vedevano questa unione, ma lei era convinta che insieme sarebbero stati felici. Così iniziò una storia d'amore tra una " pappagallina " dalle piume bellissime ed un passerotto " azzurro ". Luce ed il passerotto stavano sempre a chiacchierare,
spesso si sentiva il cinguettio sommesso del passero che le raccontava di se del suo amore per lei e del mondo. Luce stava ad ascoltarlo incantata, i loro progetti erano bellissimi, la loro vita sarebbe stata una favola.
Ma Marajo e Arara li ostacolavano, Luce vedendo che il loro amore era così difficile si immalinconì non mangiò più, non volava più, le lacrime scendevano dai suoi occhi copiosamente, le piume non le risplendevano più. I genitori vedendo la loro amata figlia così infelice acconsentirono a questa unione. Da quel momento Luce riacquistò la gioia di vivere, era talmente gioiosa che riusciva a pigolare come il suo passerotto.
Nel contempo anche Raggio aveva trovato un amore, la famiglia era adesso unita e tranquilla, Marajo e Arara ricominciarono ad amarsi teneramente, rincorrersi e volteggiare come un tempo, Raggio stava sempre con il suo grande amore. 
Luce era talmente felice di stare con il suo passerotto azzurro che quando volava di notte, la foresta risplendeva di mille colori.

Dedicata a tutti i compagni bambini dei pappagalli!! Buon week end...

"Alla zampa di ogni uccello che vola è legato il filo dell'infinito."
(Victor Hugo)



lunedì 3 luglio 2017

IL PROFESSIONISTA TI RISPONDE - CONSULENZA GRATUITA SU SKYPE !!

Una corretta gestione dei  NOSTRI AMICI PAPPAGALLI
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Con il raggiungimento delle 10000 visite al mio nuovo sito http://www.gianlucaranzan.it ho pensato  di offrirVI una serie di consulenze gratuite di 30 minuti  tramite SKYPE in cui illustro brevemente il mio metodo lavorativo (che spiego nei mie WORK LIVE E NEI CORSI ONLINE) e di  rispondere alle vostre domande e/o dubbi sulla gestione del vostro amico pappagallo, insieme vedremo di dare una risposta alle vostre domande in merito al comportamento, all’educazione, al richiamo (recall), all’alimentazione e mille altri argomenti in cui cercheremo di fare chiarezza … Cercherò di sfatare alcuni miti e tante leggende metropolitane che vanno molto di moda in questi tempi di guru e santoni  con fatti e dimostrazioni reali di risultati ottenuti da me in anni di serio e professionale lavoro basato sul vivere 24/24 ore al giorno con uno stormo di 16 ARA.. e un piccolo Macao appena arrivato!!
Per fare richiesta per accedere alla consulenza gratuita questo il procedimento:

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verrete iscritti nella lista delle prenotazioni a cui seguirà conferma per ora e giorno della consulenza.

A breve le date e i riferimenti per l'inizio delle consulenze!
Vi aspetto su SKYPE.

Corso gratuito  -  Durata: 30 minuti